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Racconti

lunedì 07 settembre, 2015

Libertà, Fraternità, Randonnée (1° parte)

Cronache e pensieri di una comune follia (di Zeno Da Ros)

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Nel 1891 un signore dall'aria scura, a tratti temibile,  vestito di stracci macchiati di fatiche, privazione di sonno e 1200 chilometri percorsi in bicicletta, si prestava a concedersi una coppa di champagne a lato della strada, offerta dai tifosi in delirio, pochi chilometri prima dell'arrivo di quella che sarebbe stata la prima Parigi-Brest-Parigi della storia.

Bicicletta Humber, inglese, in ferro. 21 chili. Coperture Michelin, cerchi in legno. Vinse sul rivale Jiel Laval contando sulla propria folle tenacia e costanza nel rimanere in sella superando fame, fatica e sonno. A 71 ore e 37 minuti dalla partenza diede inizio alla storia.

Il suo nome era Charles Terront.

 

 

Erano senz'altro altri tempi e conseguentemente c'erano gare di altri tempi. Il "raggiungere" un luogo usando un veicolo mosso con la sola forza impressa da un essere umano aveva ancora grosso margine di spettacolo, rispetto alle scelte odierne di "dove" passare.

 

Da Parigi all'Oceano e ritorno: la prima volta che lo senti ti mette i brividi. Farlo in bicicletta è un pensiero che se ti attrae lascia allo scoperto i caratteri, anche nascosti, del randagio: il randonneur, figura folle che nella contemporaneità si porta un po' di eredità del sangue di tanti eroi e chissà, forse dello stesso Terront.

 

Il 1951 è l'anno in cui lo spettacolo del professionismo alla PBP decade: da lì in poi percorrere quelle strade può essere un patrimonio di chiunque possa dimostrare di avere il piacere, la forza, la mente, di portare a termine i quattro brevetti di 200, 300, 400 e 600 chilometri che l'Audax Club Parisien definisce necessari per l'iscrizione a quella che, ogni 4 anni, viene considerata l'olimpiade dei Randonneur. E tra questi folli, nel 2015, c'ero anch'io.

 

Ex nuotatore, saltatore in alto, un lampo da decatleta e ora architetto, in sella ad una Synapse del 2008 da luglio del 2013.

Le prime salite, scogli insormontabili, ma enormi piaceri. Come se il tema del Perdono scelto quest'anno come motto della Maratona Dles Dolomites fosse già appartenente al mio modo di concepire il ciclismo, con una certa costanza durante il primo anno affronto i primi traguardi, i primi 100 chilometri tutti d'un fiato, le prime Granfondo (arrivando all'inizio ben dopo "la musica") e le prime emozioni. Mi sono accorto che parteciparvi era bello: dava un senso di conoscenza del territorio, assieme alla possibilità di misurare se stessi con gli altri sul livello prestazionale.

 

 

Io però, di agonismo, nella mia vita ne avevo già fatto: sentivo che mi serviva dell'altro.

Un giorno decisi che la meta di Trieste, mia città natale, durante l'ultima tappa del giro d'Italia 2014, fosse un buon pretesto per provare a cercare qualcosa di diverso dal mondo del ciclo-amatoriale. Così fu: preparazione tecnica un po' più intensa, adeguamento dell'attrezzatura (con relativo stress del nostro caro Gianni Bartoli di Bicisport Firenze che come sempre cerca la migliore soluzione a qualunque esigenza) e si prova a partire.

Furono 450 chilometri percorsi in 3 giorni, con una bicicletta carica l'inverosimile. Si sarà arrivati a 25 chili almeno: un transatlantico, ma con un po' di fortuna ce la feci. E fu li che Cesare, capitano del mio gruppo d'uscita "Montenoi.. Monteloro!" mi informò dell'esistenza della Parigi-Brest-Parigi.

 

 

1230 chilometri in 90 ore. 10 secondi dopo vedevo un video su youtube di ciclisti che in mezzo a nubifragi (era l'edizione 2007), con borse piccolissime, di giorno e di notte, dormendo ai lati delle strade e arrivando in condizioni impressionanti ai più, compivano quest'impresa.

Ne rimasi affascinato, ma accantonai subito l'idea: io per fare 445 chilometri ci avevo messo la bellezza di 3 giorni, nello stesso tempo avrei dovuto fare il triplo dei chilometri? Va bene la poesia, ma era una cosa che non si poteva fare.. anche se...

 

Passa un altro anno, è il 2015, Granfondo di Firenze. Più o meno stesso percorso del 2014, ma ben un'ora e 40 minuti in meno per completare il percorso lungo. Pomarance: stessa sensazione. Mi resi conto che dopo 10-12 mila chilometri ero diventato un'altra persona, ciclisticamente parlando, rispetto a quando nemmeno troppo tempo prima dei baldi 50enni venivano a ripescarmi mogio mogio mentre percorrevo la salita del Sugame a 8 all'ora in balìa dell'acido lattico.

Dovevo provare. Ma c'era poco tempo: era Maggio, e la Parigi-Brest-Parigi si sarebbe svolta ad Agosto.

 

Studio il sito dell'ARI (Audax Randonneur Italia), vedo che è fatto molto bene e ci sono molte informazioni. Scarico il "manuale del randagio", lo leggo con attenzione. Guardo i calendari e capisco che per provare a compiere questa impresa la prima tappa sarebbe stata da li a poco una rando di 400 chilometri: il grand tour Unesco Terre di Siena. Mai fatto più di 150 chilometri prima.

Il test fu farsi un San Baronto da Firenze prima dell'uscita solita del sabato, partendo alle 4.30 del mattino. Quel giorno feci 230 chilometri e 2600 metri di dislivello a 27 di media. Arrivai a casa molto stanco, ma cosciente che ce l'avrei potuta fare.

 

La randonnèe fu molto faticosa: una Granfondo di 400 chilometri in pratica. Rimasi appeso con l'amo alla bocca la cui canna era un gruppo di 5 pazzi che pestavano come assassini, pedalavano come se non ci fosse un domani. Cercai di portare a termine l'impresa ma non mi sono mai sentito così sfinito in vita mia  e mi promisi di non ripetere più quell'errore.

 

Successivamente toccava alla 200: Nove Colli notturna. Pioggia. Tanta pioggia. Come dicono in Emilia "piovevano tortellini". Nell'ordine avevo addosso: calze, celofan che avvolgevano i piedi, copriscarpe water proof, pantalone lungo idrorepellente, maglia, mantella, altra maglia, altra mantella, lungo tutto il corpo tuta da moto tucano urbano, cuffia da nuoto in testa, guanti lunghi e guanti da cucina, e via si parte per una rando il cui tempo in notturna variabile dava a scelta diluvio o diluvio con nebbia. Mettendomi accanto ad un altro folle e ristorandomi per bene ( e soprattutto prendendola con calma) ci misi ben 12 ore e mezza a finirla. Ma la feci, e stendersi sulla spiaggia di Cesenatico a dormire senza nessuno attorno col sole che splendeva fu un premio bellissimo per aver portato a termine quell'impresa.

 

La 300 non andò meglio. Firenze-Assisi, sulle strade che Gino Bartali percorreva per consegnare le famose lettere che salvarono la vita a diversi condannati, azione che molti anni dopo lo elevò a Giusto tra i Popoli. Giusto in mezzo alla campagna, alle 6.30 di mattina, avevo l'appuntamento a mia insaputa con il cofano di una Polo bianca che uscì da uno stop senza nemmeno fermarsi mentre io stavo scendendo a 40 all'ora. La mia Synapse morì li, donando una composizione degna dell'onirico Dalì alla ruota anteriore (buone le Aksium: nemmeno un raggio rotto. Piegato si, ma tutti al loro posto). Io terminai la mia corsa 4 o 5 metri dopo, sull'asfalto, vivendo quei momenti che credo facciano parte del gioco ma che non auguro a nessuno di vivere. Non so come sia stato possibile, ma sono riuscito a distribuire l'impatto in modo che non si sia rotto nulla, al di là della bici. La prima cosa che ho pensato quando sono arrivato in terra è stata "ahia". La seconda è stata "addio Parigi-Brest-Parigi".

Poi i referti dell'ospedale, poi la settimana di parziale ripresa, poi la bici nuova: bisognava correre. L'ultima occasione per chiudere coi brevetti era il Randogiro dell'Emilia. 600 chilometri. Altra sfida, altra incognita.

 

Qui cambiò realmente qualcosa. Avevo capito che dovevo avere mille occhi. Avevo capito che dovevo andare più piano. Avevo capito che la pioggia è nemica finchè non ti inzuppi, poi se non fa troppo freddo ci puoi convivere. Feci tesoro di queste esperienze, e, complice anche il fatto che capii come essere più sintetico con il bagaglio, percorsi questo lungo tragitto conoscendo tantissime persone meravigliose e guardando stupendi paesaggi, ma arrivando soprattutto felice, in sella alla mia nuova Synapse con 3 giorni di vita. Il pass per Parigi era finalmente nelle mie mani.

 

Intendiamoci: non ho mai pensato alla PBP come obiettivo fin dall'inizio, o mai in modo razionale. Ho sempre cercato di pormi degli obiettivi vicini. Prima i 200 per conto mio, poi i 400, poi chiudere con la gara sotto l'acqua e via dicendo.

 

Ma ora il gioco si faceva serio. Si trattava di rilanciare ancora: 1200 km, all'estero, con tutte le spese e le difficoltà che comporta. In soli 3 mesi avrei compiuto tutto questo.

 

Dopo qualche giorno di riflessione e qualche consiglio di qualche saggio Maestro (grazie Longhini), decisi di continuare a battere il ferro finché fosse rimasto caldo: forum, telefoni, mail.. non si pensava ad altro. Iscrizione fatta, accettata.. mail ricevuta. N044 era il mio numero.

 

 

Qualcosa girava davvero per il verso giusto: a Davide, altro randonneur conosciuto durante l'appuntamento per i 600 chilometri, mancava una persona per un posto libero in un albergo a pochi chilometri dal velodromo: confermai il mio interesse. Restava da capire come affrontare il viaggio: auto? Camper? Con altri? Treno? Tra una cosa e l'altra alla fine decisi per l'aereo.

 

Tutte queste cose, come spostarsi prima e dopo la gara, cosa portarsi, come portarlo, come attaccare le luci, il meteo visto compulsivamente, lo studio del percorso, sono fasi cruciali per portare a termine una Rando. Avere un buon ciclocoputer con le mappe è indispensabile, saperlo usare poi è ancora più utile. Esiste sempre il vecchio Roadbook di carta che ti salva in extremis.

 

Deve essere tutto presente pronto e facile, perchè in 600 chilometri succedono tante cose (ho visto uno bucare completamente una curva e finire dritto in un campo di patate, alle 4 del mattino), figuriamoci in 1200, e tutto deve essere semplice perché non si deve mai perdere più del tempo necessario, che se avanza deve essere dato tutto allo spirito e magari al riposo.

 

I 4 giorni precedenti alla partenza interamente finalizzati al viaggio. 30 metri di carta da imballo creano un quasi convincente scudo alla mia Synapse dentro una borsaccia di Decathlon. Un po' di fortuna ha fatto il resto. La bicicletta è arrivata abbastanza sana e soprattutto il viaggio non è durato praticamente nulla: 1h e 30 minuti in confronto anche a 2 giorni di altri che hanno deciso di raggiungere la Francia col camper.

 

Con tutta calma mi trovavo alle 8:30 del mattino all'aeroporto Orly di Parigi. Con tutta calma vedo di trovarmi un posto comodo, il mio obiettivo era di rimontarmi la bici e di percorrere da lì i 30 chilometri che mi separavano da Guyancourt, gettare i 30 metri di carta da imballo che avrei poi ricomprato al ritorno da un negozio vicino all'aeroporto e ricominciare l'avventura.

Tutto procedeva con calma assoluta, prima delle 15 non sarei potuto entrare e avevo tutto il tempo del mondo. Montata la bici e le borse.. decido piano piano di cercare di caricarmi anche la carta da imballo. Dopo più di due ore di applicazione delle abilità acquisite in parte dell'infanzia a giocare a tetris, riuscii nella mia insperata impresa di caricare tutti i 30 metri dell'imballo e le borse sulla bici, il resto dei vestiti nello zaino e la borsa della bici sullo zaino, e, senza evitare di sembrare un vero e proprio vagabondo (ma alla fine: chi se ne frega?) schivare taxy e pullman e immettermi nelle prime dolci colline parigine in direzione Guyancourt.

 

Primi metri, primi problemi: avendo messo mano al deragliatore per disincastrare la catena, non c'era verso di uscire dalla corona del 34. Parto lo stesso, e dopo qualche indicazione e qualche aiuto di altri ciclisti francesi, arrivo nella frazione di Antony, dove in un negozio di bici un ragazzo mi sistema il problema per le successive 24 ore!

 

Il tragitto procede bene, l'arrivo è puntuale, la camera confortevole. La giornata prosegue con una chiacchierata a Saint Quentin en Yvelines (città sede del velodromo dal quale si sarebbe partiti due giorni dopo) assieme a Yugyo, un signore giapponese metodico e composto (chi l'avrebbe mai detto) con il quale abbiamo fin da subito condiviso impressioni ed obiettivi sull'evento.

 

A Saint Quentin risiedevano la maggiorparte dei randonneur. Bici di ogni tipo: per pedalare distesi, in piedi tipo step, tricicli, tandem, tridem, bici vintage, customizzate, bici da corsa, mountain bike, scassate e nuove di pacca, city bike, Brompton, handbike.. e chi ne ha più ne metta. Una marea di americani e giapponesi, che cercavano tutti un posto comodo dove montare i loro veicoli.

Tante le occasioni per conoscersi, fare fotografie, scambiare opinioni. Tantissimi sono li per la prima volta e sono emozionati come me. Nel frattempo la birra scorre e il tempo anche.. è l'ora di andare a dormire, l'indomani ci sarebbe stato il primo incontro con il Velodròme.

 

Campo base fantastico. Una marea di 6000 folli gestiti da un'organizzazione impeccabile: la fila al controllo della bici (luci-compenti fissate correttamente-ruote), assegnazione della matricola alla bici per i controlli alle uscite dai parcheggi e l'assistenza meccanica avvenivano all'esterno, come i parcheggi delle biciclette messe su lunghi assi di legno appoggiate dalla sella. La distribuzione delle maglie e dei giubbotti rifrangenti avveniva all'interno, assieme ad un mini expo di prodotti per ciclisti randagi (specchietti e luci in pole position, ma anche bici che si chiudono su se stesse, bici vintage e tante altre follie).

 

Ma può la sensazione di esser lì per partecipare ad una olimpiade dei randonneur frenarci per farci un giro a Parigi? Assolutamente no! La sensazione bellissima di arrivare alla Torre Eiffel in sella alla propria bici è esattamente l'opposto di quella che provi quando per una baguette una birra e un caffè spendi 20 euro, ma insomma alla fine tra aeroporto, Velodròme, Parigi e ritorno, ci scappa un 100ino il giorno prima della gara che, considerando le distanze, ci sta alla grande.

 

L'indomani sarebbe stata la giornata della partenza. Nessuna tensione, nessuna ansia. Non c'è spazio per esser tesi prima di una gara che durerà almeno 3 giorni. Si sa che il ritmo sarà sostenibile e che non ci si potrà inventare nulla in base alle proprie possibilità. La Nazionale Italiana Randonneur si raduna per qualche foto poco di rito e molto goliardica, si trovano gli amici incontrati nelle diverse rando, si parla, si beve del vino. Poi il pranzo, abbondante a buffet, in silenzio e serenità, dentro al velodròme.

Al centro della copertura, è appeso un megaschermo: mostra le immagini dell'ultima edizione. Si vede il ponte di Brest, l'andatura dei primi abbastanza sostenuta. Ci si immagina li tra poche ore.

 

La mia partenza era fissata alle ore 19, in quanto ho scelto le 90 ore per completare il percorso. Scegliendo le 80 ore si poteva partire dalle 16 alle 18 (si parte a scaglioni di 15 minuti, circa 150 persone alla volta), e scegliendo le 84 ore si sarebbe partiti l'indomani alle 5 del mattino, permettendosi di avere subito un'intera giornata a disposizione per procedere, che non è poco.

 

Cerco di dormire, riposare e liberare la mente prima della partenza. Isolarsi è importante, anche se non si dorme il battito cardiaco diminuisce e il corpo ne trae beneficio e recupera energia. Anche annoiarsi un po' non fa male, anche se ovviamente vedere le prime partenze e la folla in delirio, poi le partenze dei veicoli speciali, è di per se un momento magico. Ti senti a casa.

 

Siamo quindi pronti. Sempre rilassati si passano le transenne, piano piano ci mettono in griglia, lo speaker comincia il conto alla rovescia, e in salita, ad aspettare che il gruppo si muova, il mio ultimo saluto da fermo è ad una coppia di senesi. Alla partenza invece un enorme piacere è stato vedere Andrea Perugini di "Pedalando nella Storia" che mi ha soccorso durante il mio incidente della 300.

 

Si prova un certo sollievo a partire. Sono le 19 ma avremo luce fino alle 22.

Siamo tantissimi. Attraversiamo Saint Quentin tra folle di gente amichevole che ci saluta. Il traffico è chiuso e tutti fanno il tifo. Particolare è l'accoglienza riservata agli Italiani. Tutti adorano l'Italia. Tanti si lasciano scappare un "Forza Italìa" quando vedono passare me ed altri con la maglia tricolore.

 

Percorso veloce ad uscire dalla città. Chiacchiero con una ragazza americana, che a vederla non gli dai nulla: minuta, rilassata e in apparenza cosciente di quello che stava per fare.

Accanto a me tante biciclette con borse più o meno credibili: lo sguardo si perde tra i compagni e si procede verso il cambiamento del paesaggio.

 

I panorami di una Parigi Brest Parigi non sono molto vari. Si attraversano di rado dei centri abitati, tutti molto piccoli e di notte scarsamente o totalmente non illuminati. La campagna è caratterizzata dalla perenne presenza di dolci rilievi. A tratti si attraversano dei viali alberati a chiudere quasi la visuale verso il cielo e talvolta si percorrono anche delle piccole foreste, ma raramente si superano pendenze del 2% o del 3% e la pianura vera e propria si trova solo nei 200 chilometri più vicini a Parigi.

 

Nelle prime fasi della corsa si hanno tante occasioni di scambiare partner di pedalata con il quale darsi il cambio ad un ritmo che sia comodo. Sei dentro ad una corsa, sei ancora riposato e vigile, e la sensazione non si discosta troppo da quella che può essere una semplice uscita con gli amici o una classica cicloturistica.

 

La luce inizia a calare. L'obiettivo che mi ero preposto era quello di percorrere i primi 200 km in circa 8 ore, dormirne 3-4, e poi procedere fino a Brest. Lo scoglio psicologico era dovuto al fatto che il primo controllo sarebbe stato appena a 220 chilometri, quindi prima di 12 ore dalla partenza non avrei iniziato la mia collezione di timbri, ma cercavo di non pensarci.

 

E' praticamente notte. Un fiume di luci rosse e bianche e di giubbotti gialli disegna a perdita d'occhio il serpentone della strada che si perde tra le colline. L'aria è fresca, di quelle che ti fa andare bene quando sei in temperatura, e che ti fa bere il giusto. Cerchi di mantenere equilibrio tra velocità e sforzo, e non si presenta alcun problema. Nell'immediato entri in un quel ritmo che ormai conosci da altre Rando, già prendi posizione in quella condizione piacevole, propositiva, in cui ti lasci tutti i problemi alle spalle e non fai altro che goderti l'infinito che si erge di fronte a te.

E sai che avrai di che nutrirti, perché mancano ben 1100 chilometri alla fine della tua avventura.

 

Il primo incontro con i ristori, senza timbri, avviene ad una 90ina di chilometri. E' ora di cena, decido di mangiare un pasto intero anche perché la media è altissima (chiuderò i primi 200 con una media di 29 e rotti, pedalata si intende) e quindi sono leggermente in anticipo con i tempi. Il posto è strapieno, per mangiare riempire l'acqua e rivestirsi ci vorrà quasi un'ora.

I ristori si pagano alla PBP, con prezzi più o meno gestibili ma si pagano. Ci si deve mettere l'anima in pace, fare la fila, e spendere, altrimenti si rischia di mandare tutto all'aria. Le zuppe, la pasta e la carne sono di ottima qualità.

L'ambiente è interamente illuminato da una forte luce neon giallastra che ti stona leggermente, e tutti presentano ancora facce e comportamenti da persone sane e coscienti. Fatto quello che si doveva fare, si parte e si cerca di concludere la giornata, mancavano un centinaio abbondante e sarei arrivato per le 2:30 del mattino, con una mezz'ora di anticipo.

 

Iniziano le salite, e le discese. Generalmente ho un ritmo superiore alla media. Tutta una serie di persone sulla destra che vanno regolari, noi sulla sinistra sempre regolari, ma più allegri. Già si vedono alcuni che stanno arrancando, e ti domandi quante speranze abbiano di finire la gara: poi ti rendi conto che non sai nemmeno tu quante ne hai e che tutto sommato sei sulla stessa barca.

 

Prendo di riferimento un australiano, completamente senza borse. Bisogna capire che partecipando ad una PBP si ha la possibilità di impostare come meglio si crede la gara: con auto al seguito, con un camper, con un servizio di bag drop - e questi sono i casi in cui si può viaggiare più scarichi in sicurezza - in totale autonomia portandosi tutto il necessario -come facevo io avendo però una bici di quasi 20 chili- oppure in autonomia lasciando perdere qualche dettaglio -ad esempio decidendo di lasciare qualche cambio oppure il copertone di riserva, sperando di non averne bisogno-. Ecco, quell'australiano davanti a me con un canguro bianco su sfondo blu stampato sui pantaloni è stato il mio riferimento fino ai 200, ed era senza niente sulla bici, come se fosse alla cicloturistica qualunque della domenica, e io dietro con il carro armato a pestare.

Arrivo:Fresanay sur Sartre. Albergo. Doccia. Caricare luci. Letto. Ciao. Sveglia. Si riparte. Boia: mi sento benissimo. Esco cercando un posto dove fare colazione, e mi accorgo subito che la folla di gente della sera prima è svanita, e al loro posto ci sono una serie sparpagliata di ciclisti a ritmo decisamente inferiore al mio. Inizio a capire che forse sarebbe stato un fattore che mi poteva portare dei problemi.

 

Il primo bar aperto ha solo caffè. Hanno spolverato tutto il cibo. Un pianista ha l'aria di suonare da molto tempo è sono solo le 7.30 del mattino. Con le sue note riempie tutto l'ambiente, dà allegria. Sembra che anche lui a suo modo stia facendo una randonnèe, e ti fa subito capire come quella strada abbia un senso di appartenenza a questa manifestazione a cui è legata in maniera permanente. Altra sosta poco dopo per comprare frutta e cibaglie per il viaggio. Brutto segno: queste continue soste portano alla lunga a perdite di tempo importanti. Però la strada è ancora lunga.

 

Primo controllo, km 220. Tanti addetti di segnano dove devi andare, come parcheggiare. Proteggi tacchette sempre in tasca perchè in questi giorni si dovrà camminare tanto. Alla partenza ci hanno assegnato un chip da tenere alla caviglia sinistra (si, per tutti i 1230 km sto cacchio di chip, ma che bisogna farci?) con il quale si poteva dare segni di vita a parenti ed amici attraverso un portale internet che teneva memoria dei vari passaggi. E devo dire che ha funzionato perché quelli della mia squadretta del sabato mi hanno confessato che tra di loro c'era chi seguiva con vivo interesse e non senza preoccupazione il mio avanzamento a tappe di questa impresa.

 

Faceva ancora fresco. Mi sentivo bene. Ai lati la gente che fa il tifo. Alle 8 del mattino sono venuti in macchina, si sono messi ai lati delle strade per cominciare a dirci "Bravo, bonne ruote! Bonne Courage!" e darci forza in questa impresa. Campi e sanissimi bovini iniziano a diventare protagonisti della visuale. Sono praticamente da solo. Ma scorro.

 

Per darmi un riferimento generale cerco di vedere le lettere delle targhe assegnate ai ciclisti che sto superando. Le partenze consecutive erano distinte da una lettera progressiva, quindi se io vedevo una M sapevo che su di lui avevo recuperato terreno (essendo io una N), se vedevo una P era segno che un po' di tempo l'avevo perso. C'erano tante S e tante T per intenderci e c'era da recuperare parecchio.

 

Di solito la strategia maggiormente adottata è quella di andare fino a Ludèac, controllo posto a 400 chilometri dalla partenza e che segna anche il traguardo degli 800 al ritorno da Brest, punto importante per il Bag Drop perchè appunto permette di dividere l'impresa in tre parti uguali. Stesso discorso per dormire e per mangiare. Il problema è che se riesci a fare una tirata fino a lì, arrivi di notte fonda, mangi e poi non dormi se non per terra perché il dormitorio è pieno, te lo prendi un po' in tasca.

 

In diversi controlli c'erano i dormitori: intere aree destinate al riposo. Il materassino costa 3 euro, la branda costa 4. Viene fornita la coperta, c'è il servizio di accompagnamento e gli addetti ti vengono pure a svegliare all'ora stabilità, perché riconoscono il numero del posto in cui dormi e si segnano l'ora che tu hai comunicato loro all'ingresso. A me è servito molto, ma solo al ritorno.

 

Procedendo arrivo verso ora di pranzo ad un ristoro, e tra controllo e ristoro e un po' di stretching schiaffo un'altra ora. Sono sereno, affronterò la cosa così come arriva: la giornata è calda e splendida, e il timore di avere la pioggia è solo un lontano ricordo perché le previsioni si stanno rivelando molto efficaci e ci lasciano tranquilli per almeno altri 3-4 giorni.

 

Ludèac non arriva troppo tardi, e piano piano recupero anche i miei compagni di N e anche qualche M, senza considerare i vari C e D che ormai mi sa avevano poche possibilità di finire.

 

Incontro per la strada anche i mezzi speciali. I più bizzarri erano un gruppo di uomini con un veicolo composto da un sistema di pedane attivabile a mo' di esercizio di step. Le pedane sono vincolate a dei binari, e si possono muovere ovviamente solo alternandosi, sollevandosi e abbassandosi specularmente. La parte posteriore è collegata ad una sorta di pignone che muove le ruote. Si guidano rigorosamente in piedi e danno l'idea di essere incredibilmente pesanti. Facevano la parte del leone all'arrivo dei controlli, attirandosi l'attenzione di tutti.

 

Parto quindi dai 400 in direzione di Brest. Mancano 215 chilometri ed era già sera. I miei programmi di arrivare a Brest entro l'1.30 e andare a dormire già si stavano frantumando, ma me ne sono fatto una ragione e sono ripartito.

 

Seconda notte, la prima dopo un'intera giornata. Non avevo idea di quello che mi aspettava. Per il momento c'era solo da perdersi in se stessi e pedalare. Passare il tempo a chiacchierare e salutare la gente.

Inutile dire che durante 1200 chilometri non ci sono tempi morti, sarebbe una follia non ammetterlo. E così ha iniziato ad essere. La PBP è anche una sfida verso se stessi e da lì stavo cercando di rimediare ad un'ulteriore complicazione di ritardi che, assieme alla consapevolezza che il tratto Parigi-Brest è sempre più (relativamente) rapido del tratto Brest-Parigi, rischiava di farmi sforare dalle 90 ore limite.

 

Stavo entrando nell'errato tunnel mentale di cercare di organizzare troppe cose. E' un errore fare certi ragionamenti ad una rando, come è un errore fermarsi troppo e lasciare che tutto scorra come deve scorrere. Ogni cosa deve esser presa con largo margine, agli inconvenienti si risponde. Ma in quel momento la storia era diversa.

 

Charaix. 120 chilometri all'arrivo. Parto da solo e parto subito in salita. 500 chilometri alle spalle. Mezzanotte e mezza e sono in bici dalle 7. Sempre da solo entro in una foresta, senza nessuno, nel buio. La strada sale sempre. Piano, ma sale. Il buio totale e la solitudine fanno sembrare la modalità eco della mia luce a batterie attaccata sul manubrio un faro da porto internazionale. Per precauzione e per passare meglio il tempo accendo anche la luce sul casco (direzionale alla vista). A tratti si sentono animali muoversi tra le foglie.

Passano i primi chilometri, e a differenza di quanto percorso precedentemente all'ultimo controllo, noto che alla salita non si alterna la discesa. Procedo. Altri chilometri, stessa storia. Il cielo è limpido sopra di me e tra gli alberi vedo milioni di stelle. La mia mente va alle giornate d'estate in montagna, quando faceva più caldo rispetto a quel preciso momento verso Brest, e potevo stendermi ad ammirare il cielo con tutta calma. Procedo. Un rumore di un fiume e la strada che continua in salita. Procedo. Fascio di luce dietro di me mi da una svegliata improvvisa, come uno schiaffo: sono le moto dell'organizzazione che passano sempre in coppia a distanza di 5 secondi una dall'altra. Procedo. Sempre salita. Trovo delle case e la mia attenzione viene attirata ogni tanto da qualche randonneur che ai lati della carreggiata si è avvolto nella coperta termica e dorme. Spesso si vedono prima perchè regolamento vorrebbe che si lasciasse sempre almeno la luce posteriore della bici accesa, parcheggiata accanto, ma tanti non lo fanno e quindi ti puoi trovare all'improvviso con un fascio di luce che ti acceca, che poi è la tua stessa luce che si riflette sull'alluminio della coperta termica.

 

Procedo. Inizio a chiedermi perché non smette di salire. Sono le 2. Velocità di crociera 14-15 km/h. Inizio ad essere stanco e preoccupato. Procedo. Sempre salita. Mancano circa 80 km. Riesco ad affiancare altri ciclisti, ma dopo poco tempo le loro luci rosse fanno lo stesso effetto dei flash nelle riprese televisive degli anni 80: lasciano una scia impressa sulla mia vista. Sbando, è già la terza o quarta volta che mi capita, e sono sulla bici da almeno 20 ore. Non ce la posso fare. Cerco questo benedetto sonno lampo.

 

Mi metto a lato della strada. Piattaforma di cemento. Mi lascio il casco addosso. Lascio le luci accese sulla bici. Mi allontano di qualche passo e mi stendo.

Guardo il cielo e ammiro le galassie. Il buio totale attorno e uno spettacolo meraviglioso sopra di me, di fronte a me. Sto ancora bene. Non ho ancora freddo.

Chiudo gli occhi. Non mi interessa dormire. Volevo solo fermarmi. Passa qualche minuto.

Si sente in lontananza un rumore di bicicletta, mi passa accanto. Poi un altra e un altra. Sento il rumore della ruota libera quando sono vicino a me e si allontana con l'effetto Doppler. Decido di ascoltarne ancora 3 passare e poi di alzarmi.

 

Arriva la prima.

 

Arriva la seconda la terza la quarta tutte assieme e decido che non vale e che quello era un gruppo.

 

Passano 30 secondi e arriva la terza.

 

Poi silenzio. Passa ancora del tempo, degli istanti. "Se non mi alzo mi congelo".

Prendo e riparto.

 

Inizio a tremare dal freddo. Il sudore addosso è appiccato e freddo e solo un 34x28 a regime può cercare di farmi stare meglio. Procedo. Mi scaldo e mi rendo conto che sto meglio, posso continuare.

Si affiancano altri ciclisti. Assieme continuiamo a salire, ma ora la salita arriva anche al 5%.  C'è la nebbia, fitta, che non vedi a 100 metri. Non si possono tenere gli occhiali: non si vede nulla, si condensa l'acqua sulla lente. Un lungo rettilineo di fronte a me e in fondo luci rosse, che sbandano e lasciano effetti strobo nell'umidità, fasci di luce lenti che vanno a destra a sinistra come fossero luci di un'astronave aliena. Erano tante, stiamo raggiungendo un bel gruppo. Qualcuno addirittura scende e sta andando a piedi. Siamo alle porte coi sassi. Raggiungo il gruppo, c'è anche una velomobile, che solo il padre eterno sa quanto stava soffrendo quello che ci pedalava dentro. In lontananza si vede un antenna: "logica vuole che l'antenna sia nel punto più alto del monte" pensai. E infatti così fu, ma non scollina subito: piano piano dal 5% si porta al 4, poi al 3 e via via diventa piana. Finché finisce. Mi è sembrato di farmi 2 o 3 passi della Consuma, ma ero solo a 350 metri di altitudine.

 

Viaggiare di notte ha il suo fascino, ma può portare a dei problemi: fa freddo, ci vedi poco e soprattutto hai la sensazione di andare più veloce di quello a cui in realtà stai andando. 24 orari di notte ti fa credere di andare a 30 almeno: è una cosa strana. Un'altra cosa complicata che si può presentare di notte è una discesa di 20 chilometri nella nebbia con 5 gradi quando poche ore prima che n'erano 25.

 

Scendiamo giù veloci. Mi affiancano due veri kamikaze. Hanno due bici in acciaio, nere, con le ruote larghe, con i parafanghi lunghi, con un adesivo raffigurante un teschio sulla coda che ti guarda con cattiveria. I pirati randonneur. Viaggiavano come delle frecce fendendo la nebbia nella notte con le loro bici vintage in tinta con le tenebre. Mi hanno letteralmente portato fuori da quell'ammasso di umidità. Quando entriamo in un piccolo paese e decido di fare un altro sonno lampo.

Stavolta ero prossimo ad un bancomat, quelli con la stanza interna chiusa. Inutile dire che c'erano almento 10 randonneur uno sopra l'altro stesi all'interno e che non c'era verso di entrare. Ho fatto gli stessi due minuti di prima e sono ripartito. Dopo 200 metri ho avuto una vera e propria visione idilliaca: un Bar. Aperto. Alle 5 del mattino. In mezzo al nulla. Con caffè the e brioches. Solo per noi della PBP.

 

Un thè e un cornetto assieme all'assurdo casuale incontro con Stefano, altro amico rando che stava già tornando da Brest, tartassato da un altro suo compare che alla fine concluderà nel favoloso tempo di 66 ore, e che a differenza di me aveva 1 ora e mezza invece di 3 nel bagaglio del riposo. E' stato un bell'incontro che mi ha dato la forza di proseguire.

 

Arrivando a ridosso dell'oceano la temperatura iniziava a rendersi più umana. Attraversiamo finalmente centri abitati illuminati. Mancano 10 km all'arrivo di Brest. Finalmente attraversiamo il famoso ponte.

 

I lunghi pilastri lasciavano in bella mostra i tiranti che nella notte non erano illuminati come una grande opera vorrebbe, ma che manifestavano la loro presenza tra le luci riflesse della città e che si lasciavano intravedere tra i colori della notte, come se si volessero nascondere senza però riuscirci a causa della loro maestosità. E' il simbolo del mezzo traguardo.

 

Arrivare a Brest mi ha dato un gran sollievo. Ero arrivato a metà strada. Alla fine il ritardo accumulato era di 5 ore, tutto sommato abbastanza gestibile considerando il margine all'arrivo che mi ero calcolato.

 

Mi aspettava una dormita di almeno 4 ore. E una doccia. Il resto si sarebbe visto il giorno dopo. Intanto i primi 6oo erano andati.

 

Mi sveglio verso le 11.30, check out ore 12. Rimontare in sella dopo 4 ore di sonno ti rigenera. La giornata limpida e calda mi dava il benvenuto al porto di Brest, con i gabbiani a far da colonna sonora. Il morale è alto, le brutte sensazioni della sera prima solo un ricordo.

 

Procedere lungo la strada della Parigi Brest Parigi vuol dire anche trovare e ritrovare decine di volte persone perse anche centinaia di chilometri prima. Fu così con Alex, ragazzo russo della mia età con il quale condivisi un centinaio di chilometri prima di Ludèac, e che ritrovai proprio alla partenza da Brest. Siamo ripartiti assieme, ma nell'avvicinarsi all'ascesa del monte che ci avrebbe portato all'antenna mi superò un gruppo con la lettera Z sul numero: erano quelli delle 84 ore che erano partiti si e no 28 ore prima da Parigi e che stavano tornando indietro.. non potevo non approfittarne.

3 statunitensi e un tedesco. Bici manco a dirlo inguardabili in quanto a peso, meravigliose in quanto ad estetica. Mi son messo dietro e non mi son più schiodato fino alla vetta, le gambe fresche e il sole hanno fatto il resto.

La salita era molto più dolce, la velocità molto più alta, la testa stava veramente bene, limpida e ricettiva di sensazioni positive. La gente che passavo cominciava a dare segni di serio squilibrio da carenza di sonno, alcuni non rispondono nemmeno ai saluti, tanti si lasciano andare a bordo strada ad un riposo ristoratore.

 

Il procedere costantemente incorniciato da centinaia di francesi che fanno il tifo, che si aggregano nei punti chiave: un borgo, la cima di una collina. E in questo caso sulla vetta, i famosi stranissimi 350 metri di altitudine che pesano almeno il triplo, si forma un piccolo stadio di persone. Attrezzatissime, con auto, sedie, ombrelloni e cibo, hanno intenzione di passare lì tanto tempo e si vede! Il sorriso ce l'hanno sempre, per tutti. I bambini sono con loro, e non vedono l'ora di darti il 5, allungando la mano, anche in discesa, rischiando di farsi male. Io ho sempre cercato di avvicinarmici, magari anche rallentando, perché ogni volta che toccavo la mano di un bambino sentivo come un bonus di energia che potevo accumulare per passare meglio i chilometri successivi. Questo fa parte degli ingredienti essenziali della PBP: la gente. Anche con vivande, caffè, thè, omelette, gratuiti per i ciclisti. Ho mangiato per 10, bevuto caffè, bibite, riempito borracce, mangiato dolci, riempito la borsa di merendine, in cambio di un'offerta libera, spesso bastava un grosso sorriso. Il dispiacere soltanto di non sapere il francese, dato che l'inglese sembra bandito come lingua lungo questo percorso.

 

Superata la vetta, la lunga discesa: la rivincita della sofferenza della notte nella nebbia. Ho sempre visto la discesa come un temporaneo premio alle fatiche appena fatte. In una rando la discesa va goduta appieno, ti puoi concedere di continuare a far girare le gambe, appoggiare i piedi sui pedali per dare una rotondità alla spinta che sia però di quelle che ti fanno recuperare la forza. In genere il maggior peso ti fa prendere più velocità del solito e quindi non hai bisogno di fare follie.

Il ritorno è sempre più facile. E' come se fosse un lungo conto alla rovescia di 600 chilometri.

Percorro lo stesso tratto di strada che il giorno precedente ho fatto in 5 ore e mezza in poco più di 4 ore.

Era ovvio che la mia strategia era saltata. Ed in più stavo rapidamente terminando i soldi. La cosa migliore da fare sarebbe stata quella di continuare a pedalare il più possibile costantemente, limitare le fermate ai controlli e al cibo se non ci fosse stata coda, e fare scorta in qualche brasserie per mangiare poco e continuativamente durante il tragitto. Il litro e 2 di acqua che avevo con me era sufficiente a coprire gli 80 chilometri che mi separavano da un controllo all'altro. Quindi, per il momento, bastava andare.

 

Partire a mezzogiorno è bello, ma inevitabilmente sai che sarai obbligato a farti come minimo un'altra notte intera pedalando. Pazienza. Al ritorno da Brest sai sfruttare meglio i tempi, è come se accumulassi esperienza all'interno della stessa corsa ciclistica. Assumi automatismi ai movimenti da fare nelle varie ore della giornata, regoli il tempo in base ai chilometri, all'idratazione, al cibo, alle chiacchiere.. e ai controlli sai cosa fare per perdere meno tempo di prima. Nel frattempo programmi la sosta successiva, fai una stima dell'arrivo generale, cerchi di prevedere dove sarai e quando sarai. Quando tutto è a posto, ascolti il vento e accumuli calore.

 

Le colline non sono più un incubo come il giorno prima, si riescono ad affrontare anche cercando alle volte il rilancio alzandosi sui pedali, anche se il contachilometri segna già un bel 750.

In generale è sempre meglio rimanere seduti, anche se la sensazione è differente in realtà si fa sempre più fatica, e di chilometri nel mancano sempre 450. Presto sarei arrivato a Ludèac, e sono 2/3 di percorso.

 

La settimana prima della partenza per Parigi, per allenarmi sono andato a trovare un amico a Marina di Bibbona, per fare andata e ritorno non stop da solo e fare almeno 250 chilometri in solitaria. Bene, trovai un vento contrario fino a quasi a Pontedera che pestando in piano a 180 battiti cardiaci andavo si e no a 24 km/h. Un incubo. Però mi dissi: il vento dà e il vento prende. Avrò la mia rivincita. E infatti così fu.

 

Passata Ludèac piano piano il paesaggio si addolcisce ulteriormente, e una brezza piacevolissima si leva a poppa, per spingerti in aiuto nel tuo cammino. Il ritorno, il giorno, il vento a favore, i chilometri che mancavano che si riducevano e i chilometri percorsi che rappresentano ogni 100 metri il tuo record personale continuativo, e le sensazioni di star bene. L'impresa stava assumendo i suoi contorni, bastava continuare così.

 

 

La luce inizia a calare, continuando a procedere tra tifo della gente, caffè "gratuit e gateau" e sanissime vacche che sembrano fare pubblico talmente tante ce n'erano  sul percorso. Talvolta veniamo fermati dai commissari che come sempre ci ricordano di luci e giubbotti, e di rispettare i rossi ai semafori e gli stop. Le pene per chi sgarra vanno dall'ora alle 5 ore da aggiungere al tempo totale, e devo dire che lungo il percorso ce ne sono stati eccome di controlli.

 

Dopo aver fatto il piacevole incontro di un ciclista triestino (l'unico tra i 5800 partenti) e aver viaggiato in compagnia del presidente dell'Ari Luca Bonechi, al controllo successivo la stanchezza si fa sentire. Erano quasi le 19 e mancavano 300 chilometri all'arrivo. Serviva solo tenere il passo. Ma serviva anche un po' di risposo.

 

Entro in un dormitorio: un'enorme spazio, poca gente. Vado al mio materassino, ero già cambiato con vestiti asciutti e pronto per partire per la notte, stavo bene. Arrotolo la coperta a mo' di cuscino e vado in orbita. Ricordo che sognai. Ad un certo punto sento una mano che mi scuote, apro gli occhi e d'istinto mi appendo letteralmente al braccio all'addetto che mi ha svegliato che manca poco lo stendo in terra. Non capivo cosa stesse succedendo. Parlava in francese e io non mi ricordavo affatto del motivo per cui ero lì. Lui si siede accanto a me e con calma mi fa vedere l'orologio, erano le 20, l'ora in cui avevo detto avrei voluto ripartire. Sarà rimasto li più di un minuto ad aspettare che mi riprendessi. Piano piano torno sulla terra. Mi alzo e mi dirigo all'uscita. Mi sento molto meglio, sono lucido. Di nuovo. Era una cosa molto positiva.

Esco ringraziando tutti. Servizio efficace e squisito. Posso salire sulla bici e ripartire.

 

La luce è quella del tramonto, bella, calda nella tonalità ma cosciente di rappresentare un sipario che si chiuderà presto e che lascerà spazio allo stesso freddo, allo stesso buio già visto in precedenza.

 

Percorro pochi chilometri e la strada si impenna di un 6-7% anomalo per il percorso. Scorgo in lontananza un ciclista che conduceva una Bacchetta (quelle bici che si guidano e si pedalano da distesi) che mi sembra in difficoltà, perché si sta rialzando nella corsia opposta: era anomala come posizione per salire. Appena riesco ad avvicinarmi chiedo se è tutto ok, senza farci troppo caso lui mi dice di si e proseguo. Pochi metri e sento un tonfo, mi giro ed era caduto di nuovo.

Mi avvicino per cercare di capire come aiutarlo. Queste bici sono meno stabili delle bici normali, hanno bisogno di più velocità, di conseguenza partire per lui era molto più difficile, e in quel caso praticamente impossibile: cercava infatti di fare tutto con una certa fretta, senza badare ai movimenti. E' riuscito a provare a ripartire e ricadere una terza volta prima ancora che io potessi avvicinarmi a lui.

Eravamo nel bosco, un'altro ciclista si avvicina e cerca di farlo ripartire spingendolo da dietro, ma lui fa lo stesso errore di prima e cade per la quarta volta (che io ho visto, poi per quanto mi riguarda poteva essere pure la decima). A quel punto vedo che cerca di rimontare di nuovo in sella ed è ormai chiaro che è sfinito. Lo vedo meglio ed era davvero fuori controllo. Lo aiuto a mettere la bicicletta a lato della strada, lo prendo con due mani sulle spalle e lo guardo dritto negli occhi.

Tremava. Gli dico che si deve fermare un minuto. Che deve sedersi e poi ripartire con calma. Lui esegue senza ribattere, si siede sull'erba, sul ciglio della strada. Rimaniamo un minuto lunghissimo in silenzio, il suo respiro rallenta. Si sentono solo le foglie muoversi e le biciclette passare.

Passato il lunghissimo minuto gli dico di rimettersi in sella. Si posiziona, e all'inizio sembra capire ma poi continua a voler fare tutto da solo. Io l'avrei sostenuto con le gambe, era molto semplice e non comportava alcuno sforzo da parte mia. Lui avrebbe potuto posizionarsi per bene con tacchetti e mani per ripartire: se non ce l'avremmo fatta sarebbe stato un vero problema perché a me non andava di lasciarlo solo. Nel frattempo l'altro era bello che andato.

 

La mano era sempre in terra, e non voleva saperne di agganciarsi ai pedali. Di forza gli ho messo entrambe le mani sul manubrio, i piedi sui pedali e gli ho detto "tack!" e lui ha capito. Poi ho fatto un lento conto alla rovescia da 5 e ho iniziato a spingere. E' partito come un razzo, urlandomi poi "mercì! mercì! mercì" mentre si allontanava. E' stata un'esperienza bellissima vederlo ripartire. E non son mica riuscito a ripigliarlo! appena dopo 50 km l'ho rivisto!

 

In Francia ad Agosto fino alle 22 c'è luce. Ho cercato di forzare per andare avanti il più possibile prima dell'arrivo del buio. Ma sarebbero sorti dei problemi di lì a poco: passata la mezzanotte durante un rilancio in salita sento una fitta al polpaccio sinistro. Penso ad un crampo. Poi il ginocchio destro inizia a farmi male. Necessario dimezzare la velocità per non fermarmi. Mancavano 20 km al controllo successivo, dove appena arrivato ho cercato un medico ma non c'era se non dopo altri 35 chilometri. Un addetto alle moto si è offerto di farmi un po' di stretching e poco tempo prima un tedesco in velomobile si è fermato in mezzo ad un paese a fare due chiacchiere e a darmi la sua pomata per i crampi. In quel paesino, a notte fonda, mentre io e il tedesco parlavamo, si è unito un vecchietto che credo mi abbia anche raccontato la storia della sua vita nonostante gli avessi fatto capire più volte che per me il francese era una lingua aliena! Però era davvero simpatico, e si sa che queste cose fanno bene allo spirito.

 

Arrivai parecchio stanco e provato al controllo successivo, al limite della sofferenza con le fitte che pestavano quanto bastava da rimanere appena sotto il confine tra sopportazione e crisi. Sarà stata l'una e mezza. Cerco un dottore, passo il dormitorio che è strapieno, senza speranza di trovare un posto. Per fortuna l'assistente del medico è presente, parla inglese, e mi fa un massaggio e mi applica una bendatura.

Mi obbliga a star fermo 3 ore e mi dice che devo cercare di dormire. Questo mi sarebbe servito a recuperare forze e a sfiammare il polpaccio e il ginocchio. Finalmente quindi ero arrivato all'obbligo indiscutibile di far parte di quei folli che si stendono per terra e dormono in situazioni improponibili, tra le icone più conosciute della PBP, perché effettivamente non avevo nessuna alternativa.

 

Alla fine avvolgendomi nella coperta termica, usando la borsa anteriore come cuscino, tappi per le orecchie e giubbetto catarifrangente a coprirmi gli occhi, a posizione di mummia egiziana ho semplicemente cercato di rimanere fermo ed aspettare che il tempo passi. Ovviamente sentivo rumori, di passi, di gente che parlava (ho trovato posto solo nel corridoio tra il controllo e l'uscita, in giro d'aria completo), e speravo poco nel poter dormire. In realtà però in 2 sessioni riuscii a dormire, la prima delle quali terminata bruscamente perché uno mi è inciampato addosso, dall'una e mezza siamo arrivati alle 4:30, quindi inevitabilmente a tratti devo aver dormito per forza perché non mi sembrava affatto di esser rimasto li per tre ore.

 

Mi alzo, ovviamente con la solita trave sbattuta in capo che mi donava l'ormai abitudinale sensazione di incoscienza. Ma l'abitudine mi diceva anche che sarebbe passata. Tremavo, avevo un freddo cane. Ma dovevo uscire. Prima un caffè poi a ripescare la bici gettata in terra con le luci ancora accese.. e via ripartire.

Mi ci vuole un po' di più stavolta.. cerco di pedalare in frequenza con il 34x28 anche se siamo praticamente in piano, ma dopo qualche chilometro si può testare che in effetti polpaccio e ginocchio stanno molto meglio, e anche la mummificazione nella coperta termica ha fatto il suo effetto. Ripartiamo! Abbiamo una giornata di sole di fronte a noi! Parigi è all'orizzonte, 300 chilometri più in là!

 

La gamba gira bene, l'alba è stata sempre un momento che per me ha significato recupero di forze e coscienza: i contorni si definiscono, si rivede il paesaggio. Gli ultimi chilometri sono più pianeggianti, ero cosciente di questo, e il ciclocomputer segnava già quasi 950, ma ormai ci fai poco caso.

Solo ai 1000 in effetti stai li a guardare come fosse il tachimetro della macchina dei tuoi genitori quando hai 5 anni che segna il passaggio ad una cifra tonda (con i numeri pre era digitale che giravano era tutta un'altra emozione, va detto), ma anche vedere 4 cifre sulla voce "km percorsi" ha il suo perché.

 

Quasi contemporaneamente al passaggio ai 1000 effettivi sento in lontananza un tedesco che urla "Eintausend Kilometer!!!" e con tutti quelli presenti su quel tratto di salita (si andava a 10-13 orari) abbiamo esultato, in mezzo al niente della campagna, magari dopo ore di silenzio uno accanto all'altro.

 

(Leggi Seconda parte)

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